L’ammonimento elevato a potenza estetica |
Leggere i dipinti di Dado è come sfogliare il quaderno degli appunti di un idealista ribelle. Idealista, perché illuso di poter scalfire le robuste strutture tecnologiche della modernità; ribelle, perché già nei felici anni ‘50/’80, egli, da buon anticonformista, aveva percepito l’andamento di una parabola segnata dal sovrapotere della macchina, che avrebbe posto in crisi il collaudato ecosistema naturale. Quell’ecosistema che Dado ha reso simbolico affidandosi alla “farfalla”, inconsapevole vittima della fagocitante prevaricazione dell’artefatto meccanico. Le farfalle, la cui varietà Dado ebbe modo di accostare nel corso di un prolungato soggiorno brasiliano, sono state per lui il simbolo della bellezza, innocente ed indifesa, esposta al rischio di quella sopraffazione che, presente in ogni campo, smentisce sistematicamente i conclamati diritti di eguaglianza solennemente sottoscritti dai rappresentanti del potere. Queste premesse profumano di ideologia, almeno quanta è doveroso riconoscere ad ogni teoria che ha conosciuto diffusione nei decenni in cui l’artista ha elaborato le tematiche con cui ha visualizzato, con cinica obiettività, la società del suo tempo, sempre più propensa ad individuare nel consumismo la ragione stessa della propria esistenza. Ci chiediamo: i simboli figurativi cui è ricorso Dado sono da considerare un fraseggio puramente moralistico? Moralistico non crediamo, certamente venato di amara riflessione sì, ne siamo persuasi. Ed è una riflessione che non intende far velo su tante situazioni, mascherate sotto le altisonanti voci di industria, innovazione, sistema creditizio. In più opere, le cupe previsioni di Dado conoscono versione pittorica in un proliferare di tubazioni (manifestazione esteriore e sussiegosa di una razionalità lontana dal porre i principi scientifici cui s’ispira a beneficio dell’umanità), mentre scompare la presenza della figura umana, tanto ossessivo e totalizzante è l’intreccio del moloch meccanico, mostruoso ed inattaccabile. Esso è il protagonista della scena pittorica, perché, autoreferente, non concede spazio nemmeno ad uno spiraglio di cielo. In un altro dipinto, l’autore è ancora più esplicito: da un articolato laminatoio, Dado fa uscire una figura umana, ridotta appunto a lamina. Lo ribadisce una macchia di colore: solo quella, perché, inesistente ogni aspetto anatomico, annullata ne è forzatamente la personalità dell’individuo: con ciò l’artista evidenzia l’incombere di una meccanizzazione intollerante ed in grado addirittura di cancellare ogni riferimento umano dal panorama del visibile. Nel corso degli esordi artistici Dado manifesta propensione per l’esercizio grafico, netto e lineare, il cui segno sottile è cantante come la corda di uno strumento musicale: teso su uno sfondo chiaro e sereno, che non rifiuta la possibilità del ripensamento: il problema, all’epoca, era solo intuito, non ancora consumato. Nella fase più matura, il contorno delle tubazioni e dei meccanismi stritolanti si fa più robusto: a tracciarlo non è più il pennino, ma il pennello. Il colore è scuro, ma in realtà è tale perché povero di luce: la carenza di luce riduce quel sottile filo di speranza individuabile sullo sfondo delle prime opere e rende cupa ed opprimente l’atmosfera di un ambiente che non evoca più, perché è essa stessa matrice di tensione e di insopportabilità. Nella sua elaborazione è assente ogni ricerca di “ bella pittura”, né è possibile leggervi una sia pure labile traccia di ipotesi surrealista, emancipata dalla realtà in versione fortuita, automatica, onirica. Le cilindriche volumetrie degli sviluppi meccanici sono evidenziate ricorrendo ad una pennellata breve ed intrecciata, che disinnesca l’opaca e rugginosa articolazione ferrosa di base per concedersi ad un fraseggio apparentemente inquieto ed approssimativo. Predomina l’impersonale monotonia con cui è ribadita l’abbrividente prospettiva di un domani coniato da una matrice asettica, estranea al fascino del sentimento umano. A dieci anni dalla morte è reso omaggio all’attività pittorica di Dado con una esposizione che ripercorre, senza presunzione antologica, alcune tappe, dal 1956 al 1992. Le poche opere esposte consentono egualmente di cogliere il suo pensiero, sintesi efficace di una palese sete di giustizia, traslata in chiaro ammonimento per l’umanità. Dado lo ha fatto da pittore, metaforizzando le problematiche di un’esistenza insidiata da fenomeni speculativi, irriguardosi di ogni elementare principio di civile convivenza. La simboleggiante enfatizzazione dei due emblematici protagonisti (farfalla e struttura meccanica) è oggi letta senza difficoltà di interpretazione, perché il lettore beneficia dell’esperienza storica che ha alle spalle. La forzatura simbolica di Dado, nel persistere sulla medesima tematica e nella coerente versione stilistica, è metafora di contenuti e non concede nulla a quella “bellezza” che è sinonimo di compiacente appagamento della vista. E ciò a differenza dalla convinzione, diffusa in tempi recenti, che propende per l’emancipazione dell’espressione artistica dai gravami del contenuto e tende a risolvere la totalità del fatto poetico nel “linguaggio”: sottolineando con ciò il persistere di un esasperato egocentrismo, estraneo ad ogni integrazione relazionale. E’ forse questo l’orizzonte culturale dell’appena iniziato terzo millennio? Se così fosse non rimarrebbe che prendere atto del deprezzamento dei valori cui ebbe ad ispirarsi l’arte del passato, compresi beninteso quelli della solidarietà e del rispetto dell’ambiente. Non pensiamo che la presunzione di chi crede di risolvere tutto nel “linguaggio” possa tranquillamente sostituirsi alle premesse ideali di Dado. E ciò non per farci paladini di un moralismo di maniera, né perché assurdamente dipendenti da una visione retrospettiva, ma perché siamo persuasi che, come sempre, il pittore sia un intellettuale “impegnato”, non in senso ideologico, ma civile e che, come tale, non possa derogare dal ruolo di vessillifero dei principi della vita. L’uomo del nostro tempo, privo di ideali, vittima di esasperato individualismo, indolente a riprendere il proprio ruolo sociale, non può reiterarsi in continue abdicazioni di responsabilità scaricando su “altri” l’impegno di gestione della storia: a questo è stato chiamato e da questo non può esimersi. Se non proprio un ideale, certamente un severo richiamo alla riflessione glielo offre la pittura di Dado, che ci ricorda come il messaggio artistico sia pensiero visualizzato (non importa con quale tecnica), espresso in forma confacente alla comunicazione. Non argomentazione logica, ineccepibile, razionale, matematica, ma comunicazione di senso: il messaggio di Dado non si è esaurito nel significare le previsioni pessimistiche di chi ha percepito, con anticipo sui tempi, situazioni poi puntualmente verificatesi. Il suo messaggio ha metaforizzato l’angoscia che egli provava di fronte ad un mondo che stava abiurando la bellezza per concedersi irresponsabilmente all’illusione di un benessere materiale, purché immediato. Perciò la pittura di Dado non poteva esaurirsi nell’ambito estetizzante del puro “linguaggio”. Essa doveva proporsi quale megafono dei rischi dell’uomo contemporaneo, percepiti e filtrati dalla sensibilità di chi guarda alla società ed al domani coscientemente negligendo l’isolamento del proprio opportunismo. Dado non ha inteso fare della pittura piacevole alla vista e decorativa nella sostanza. Egli non ha inteso neppure esteriorizzare un suo problema. Semmai ha dipinto con l’ansia di non essere sufficientemente chiaro nel rendere percepibile il suo ammonimento. Comunque egli ha inteso responsabilizzare il lettore (o meglio, i lettori) sulle prospettive che il mondo della meccanizzazione apre, con subdola perfidia, ai danni della remissiva distrazione di chi ritiene invece di poterne beneficiare. Ciò è quanto ricuperiamo della figura di Dado: voce di quell’etica di cui oggi tanto si parla proprio perché è assente dalla scena quotidiana, squallidamente priva di prospettive future. Prospettive invero necessarie, non solo per esigenze di sopravvivenza, ma soprattutto per dare un qualificato progetto alla vita. Maggio 2009 Luciano Perissinotto |
Dado Belgrado |